2. Fonti e Testi

2. La nascita di Venezia, narrazioni, miti, leggende
(testi del X-XIII secolo)

Fonti

Origo civitatum Italiae seu Venetiarum

Si tratta di un'opera riunita da Roberto Cessi sulla base delle diverse redazioni del Chronicon Altinate (XI-XIII secolo) e del Chronicon Gradense (XI secolo), che narrano l'origine del popolamento lagunare e le diverse provenienze dei suoi abitanti.

Il brano scelto è la cosiddetta 'leggenda carolingia' che si riferisce alla spedizione dei Franchi in laguna nei primi anni del IX secolo, ed è compreso nell'edizione Origo civitatum Italiae seu Venetiarum, a cura di Roberto Cessi, Roma, Tipografia del Senato, 1933. Si è scelto per la godibilità della lettura un più tardo riadattamento in volgare veneziano, presente nella Cronaca Veneta di Giorgio Dolfin del XV secolo, Cod. It. VII, 794 (=8503), c. 46r-v. 

Translatio Sancti Marci

Il testo, che narra il trasporto delle reliquie di San Marco da Alessandria a Venezia avvenuto tra l'827 e l'828, iniziò a circolare nel X secolo.

Il riferimento è all'edizione curata da Nelson McCleary, Note storiche et archeologiche sul testo della Translatio S. Marci, «Memorie storiche forogiuliesi», XXVII-XXIX (1931-33). Per la lettura si è fatto ricorso alla versione in volgare veneziano della Cronaca 'pseudo-Zancaruola', del XV secolo, Cod. It. VII, 49 (=9274), c. 134v-135r.-v.

Giovanni Diacono, Historia Veneticorum

Dell'autore della Historia Veneticorum, che viene considerata il primo testimone della storiografia veneziana, si sa poco: diacono, cappellano del doge Pietro II Orseolo (991-1008), con incarichi diplomatici svolti al suo servizio presso la corte tedesca, compose la storia nei primi anni del XI secolo; la narrazione inizia dall'invasione longobarda e termina nell'anno 1008.

I brani (citati secondo la classica suddivisione del testo in libro e paragrafo) si riferiscono all'edizione a cura di Giovanni Monticolo, La cronaca veneziana del diacono Giovanni, in Cronache veneziane antichissime, Roma, Forzani e C. tipografi del Senato, 1890. Cfr. Giovanni Diacono, Istoria Veneticorum, edizione e traduzione di Luigi Andrea Berto, Bologna, Zanichelli, 1999.

 

Testi

Leggenda carolingia (Origo civitatum Italiae seu Venetiarum)

La scena si apre su Malamocco disabitata, svuotata per l'arrivo di Carlo Magno. Protagonista cruciale è una donna, un'anziana, qui è indicata come ostessa, in altri casi come una saggia e aristocratica donna, che salva i veneziani. E il racconto ripropone anche un tema cruciale per la vita in questo luogo, cioè i saperi necessari per affrontare questo sito così particolare, di acque e terre, di venti, di barene tranquille ma anche di tempeste improvvise.

Ritorniamo ad Obelerio, el qual promosse il re Charlo cun el suo exercito contra Veneziani et fece venir quello in la provincia fino a la cità de Malamoco, dove i trovarono la terra vuoda et abandonata, per la qual cossa i hebeno grande admirazione.

Et lì era rimasta una donna antica veneziana, la qual el re se la fece venir a sé et domandolla strettamente perché quella citade era vuoda de populo et dove i Veneziani se ne erano andati, la qual donna rispose che per paura dela sua venuta li Veneziani erano tutti fuziti ad uno loco chiamato Rivo Alto.

Et seguitando a domandare il re se v’era modo de poter andar a quello loco, la vecchia rispose: «Io ho molti parenti poveri in Rivo Alto. S’el vi piace darmi una certa quantità de denari» -quelli che essa li domandava - lei li promise al re de far vegnir quelli suoi parenti che li darano tal modo et consiglio, così che el saria condoto cun el suo exercito a questo loco de Rivo Alto.

El re, per compir el suo desiderio, dette quelli denari a la vecchia che l’aveva domandati et lei cun li suo parenti fece far molte zattere de legname cun le botti ligade sotto dele zattere et suso [sopra] quelle fece montar la persona del re Carlo cun i suoi cavalli et tutto lo suo exercito et victuaria, dicendogli che fino a Rivo Alto c’era poco spazio et invece c'era più de miglia dodici et, dispartita che fu questa hostessa de Malamoco, egli navigò sicuramente in fino a mezo del suo camin.

Ma come fu la voluntà de Dio, in seguito se fece una gran tempesta de garbin, cun gran vento et, attrovandose queste zattere a traversar uno largo canal molto profundo, per il fortunal del vento in quel fondo de aqua, il mar cominciò a montare et disligò le botti legate sotto le zattere e così pichollò [affossò] una gran parte de quel exercito, homini et cavalli che se anegò.
Et quel loco, over canal dove li detti naufragò, fu dapoi chiamato et chiamasi Canal Orfano.

Et el re Carlo cun una parte dele sue genti scapolò su una de quelle isole, perché el fortunal li portò alla ventura, et lì rimase finché el fortunal fu cessato.
Re Carlo reflectendo cun el suo intelletto, conossete [riconobbe] che era venuto a la destruzion de Veneziani contra la voluntade de Dio.

Et alora lui se tolse zoso dela sua mala opinion et così mandò suoi messagi a Beato doge, disendo che de grazia spezial lui desiderava pacificamente veder la sua presenzia, la qual grazia de bono animo li fu conceduta perché li Veneziani, boni et pieni de humilità, non se volse levar in superbia per la victoria rezevuda, et feceli vegnir in Rivo Alto et feceli de molti honori et piaceri, ricoperandolo de li sui bisogni.

Et per questo bon portamento che el ricevette da li Venetiani el ditto re, li tolse in molta grazia et benivolenzia et donò loro molte grazie et preminenze et libertade.
Et confirmò loro tutte le sue prime giurisdizioni, così deli confini deli Veneziani, come dela facultà di creazion deli suoi Dogi, et feceli queste concession per privilegio santo del anno 805.

Et poi che el ditto re Carlo fu stato molti giorni in Rivo Alto in bona pace et amore cun li suoi Veneziani et cun el suo Doge, el fu acompagnato cun una nave granda che era il bucintoro del dogado et condusselo fino a Stra, suso el Padovano, et lì tolse stretto et amorevol comiato et andossene in bona ventura.

Et dapoi, vegnendo il tempo de Zuane Partecipazio doge, Obelerio fu preso et morto.

 

Translatio Sancti Marci (Traslazione del corpo di San Marco)

Il secondo brano, l'arrivo nell'828 del corpo santo, è cruciale per la storia di Venezia ed è solo una delle tante narrazioni che riguardano il santo, San Marco, che disarcionava i primi protettori della città, come San Teodoro (Todaro), legati a Bisanzio. Nel testo latino, che si considera per ora il più antico testimone, c'è una presentazione dei veneziani che anticipa la morale del racconto e giustifica l'asportazione dell'importante reliquia: “Essi sono gente dotata in grande misura di ogni nobiltà, liberalmente dedita a coltivare la fede cattolica in ottemperanza ai divini precetti e nella loro terra non vi sono furti o latrocini, né alcuno è ingiustamente molestato, ma si compie ciò che a Dio è gradito”.

El re de saraceni, facendo edificare appresso a Babilonia un singulare palazo de mirabile grandezza, comandò che fosse alzato dalle chiese dei cristiani e da altri comuni luoghi e che fossero asportati per quell'opera colonne e lastre e pietre de marmo e ogni altra materia che la excelenza de tanta edificazione richiedesse.

Alora, overo in quel tempo, erano in Alexandria Bono tribuno de Malamoco e Rustico da Torzello mercadanti veneziani. Questi venendo per consuetudine ala chiesa de san Marco vedono Stauracio monaco e Theodoro, sacerdoti greci e guardiani dela chiesa, più malinconici del consueto. A essi ricercando la cagione de questa malinconia, rispondeno di temere la ruina dela chiesa per lo crudele comandamento del re.

Bono e Rustico pigliato overo robato il tempo congruo a far gran preghiere, li confortavano con la domanda che diano a essi il corpo de san Marco perché lo portino a Venezia, offrendo che dal duce de Venezia sarano premiati cum grandissimi honori.In prima volta li guardiani maladicendo questa domanda respondono: “havete voi audito mai in che modo san Marco scrisse il vangelo sotto dettatura di Pietro e che sotto il suo comando lo predichò in queste parti e che in questi luoghi battizando homeni li fece come suoi figlioli in Cristo?”.

Se li cristiani hanno conosciuto questa cosa, incorriamo nel pericolo de la morte. A ciò Bono e Rustico dicono: “Sel se trata dela predicatione de Marco, noi semo primogeniti de esso perché primamente predicò in le parti de Venezia e de Aquileia. E del pericolo della morte esso Cristo responde a voi secondo come disse: “se perseguitati sarete in una città, fugite in un'altra”. La qual cosa esso Marco evangelista ha observato, quando nel fervore dela persecuzione in Alexandria fuzì in Pentapoli.

Mentre i guardiani dicevano che non era così tanta la persecuzione dei pagani perché non infliggevano un personale tormento ai corpi, a caso pervenne un cristian che spezò una certa pietra de gran valore dela chiesa, facendo aposta ciò perché non fosse portata via dali infideli.
Per la qual cosa durissimamente fu castigado overo flagellato.
Adonca li guardiani mossi dal pericolo dela chiesa e vedendo che soprastava gran pericolo sopra le loro persone, mutando proposito, condiscendono ai voti deli richiedenti et domandano in che modo essi piglino il santo corpo che era posto in uno mantello rivolto di seta e del tutto richiuso dal capo fin ali piedi cum molti sigilli.

Adonca fu cavato el corpo de esso da drieto del medesimo mantello e in quel medesimo mantello reponevano el corpo de santa Claudia, non toccati i sigilli rimanenti.
Ma la cità fu riempita de tanta moltitudine di fragranze odorifere che tutti stupefatti dicevano che questo era eguale a un miracolo. Molti ancora haveriano dubitato overo dubitavano dela sottrazione del santo corpo.
Correndo da poi ala chiesa havevano la cassa retrovato e el mantello sigillato. Così ignari se ne partono.

Intanto i veneziani poste sopra el santo corpo erbe e carne de porco lo portano alla loro nave; a quelli che chiedevano che portassero, li demostravano la carne porcina così li saracini che la aborriscono gridavano forte: ganzir ganzir (che vuol dire maiale maiale) e sputando si allontanavano.
Ma appena giunti in nave richiudono el santo corpo tra i panni delle vele per timore dei saraceni i quali controllavano le navi.
Mentre che era portato a Venezia, il corpo santo tra tuti li altri miracoli quali fece, liberò la nave dal pericolo del mare.

Nella notte la nave fu descaciata velocissimamente dal vento mentre una gran tempesta si avvicinava e già non molto de longo stava la terra sassosa, quando san Marco apparve a Domenico monaco di Comacchio imbarcato con i veneziani, dicendo che ammonisse i marinari a calare le vele per non patire un naufragio.

La qual cosa essi presto fecero, mentre l'aurora illuminava l'oscurità, e così se trovarono appresso l'isola la qual è detta Strevale.
Ripreso il mare verso il porto olivolense, la lucerna della nave rifulgeva di una luce intensa così che tutti conobbero il sacro trasporto e dicevano ai veneziani: “O quanto beati siete che avete meritato un gran santo”.
Arrivati al porto di Olivolo, dal doge Giustiniano, dall'episcopo Orso, dal clericato e dala multitudine del popolo devotamente andando incontra al corpo santo cum grande honore e allegrezza e pronteza fu piado el corpo e portato al palazzo del doge.

E quelli che trasportavano il corpo dicevano che il peso si faceva presto tanto lieve da non sentirsi nemmeno. El quale fu posto in custodia per fin che fu edificada la chiesa al suo nome et honore.

 

Giovanni Diacono, Historia Veneticorum

Giovanni Diacono esordisce dando per acquisita la spartizione della Venezia e descrivendo la pluralità di centri vitali di cui è composta la civitas veneziana.

Libro I.

1.
Dato che ci sono due Venezie. La prima è quella che si trova nelle storie antiche, la quale si estendeva dai confini della Pannonia fino al fiume Adda e di cui era capitale la città di Aquileia, nella quale il beato Marco evangelista, illuminato dalla grazia divina, predicò il signore Gesù Cristo. La seconda è quella che sappiamo essere situata tra le isole, che sono riunite nel golfo del mare Adriatico, dove, tra onde che scorrono, in una posizione meravigliosa, abita felicemente una numerosa popolazione. Certamente quel popolo, per quanto può essere capito dal nome ed è provato dagli annali, ebbe origine dalla prima Venezia. Questa fu la causa per la quale ora abita nelle isole del mare.

6.
Ora è necessario citare in modo appropriato i nomi delle singole isole.

La prima si chiama Grado, che possiede alte mura; è abbellita da molte chiese e colma di corpi di santi ed è la capitale e la sede metropolitana della nuova Venezia, così come Aquileia lo era della vecchia Venezia.

La seconda isola si chiama Bibione.
La terza è Caorle, dove il vescovo di Concordia, terrorizzato dai Longobardi, andò con i suoi fedeli e, con il consenso di papa Teodato, decise di stabilirvi per il futuro la sede del suo episcopato e di. risiedervi.

La quarta è l'isola in cui tempo addietro fu fatta costruire con gran cura una città dall'imperatore Eraclio, ma, poiché era stata rovinata dal tempo, i venetici la ricostruirono più piccola. Dopo che la città di Oderzo fu presa da re Rotari, il vescovo di quella città, per concessione di papa Severiano, volle rifugiarsi in questa città di Eracliana e lì fissare la sua sede.

La quinta isola si chiama Equilo, nella quale, essendo la popolazione senza vescovo, fu per autorità divina istituito un nuovo episcopato.

La sesta è l'isola di Torcello, che, nonostante non abbia mura, grazie alla protezione delle altre isole che la circondano, domina assai sicura tra di esse.

La settima isola si chiama Murano.
L'ottava isola è Rivoalto, la quale, nonostante sia stata l'ultima ad essere stata abitata, è tuttavia la più ricca ed esaltata fra tutte, non solo per la bellezza delle sue chiese e delle sue case, ma anche perché ha la carica ducale ed è 1a sede di un episcopato.

La nona isola si chiama Metamauco, che non è priva delle fortificazioni tipiche delle città, ma è circondata quasi da ogni parte da un bel lido. Lì la popolazione ha ottenuto, per autorità apostolica, la sede episcopale.

La decima è l'isola di Poveglía.
L'undicesima è Chioggia minore nella quale si trova il monastero di s. Michele.

La dodicesima isola è chiamata Chioggia maggiore.
All'estremità della Venezia c'è anche un centro fortificato chiamato Cavarzere. Vi sono inoltre presso la medesima provincia moltissime altre isole abitabili.

Libro II.

Viene narrata l'origine dell'autonomia dei veneziani e la leggenda dell'elezione del primo duca Paulicio chiamato poi Paoluccio Anafesto, nel 697.

1. Una moltitudine di popoli si stabilì quindi in questa provincia e preferì essere sottoposta soltanto ai tribuni. Perciò avvenne che, per la durata di centocinquant'anni, innalzarono ogni anno alla sommità di questa carica quelli che si preoccupavano di esaminare attentamente le loro cause. E, poiché si lamentavano che i patri territori erano completamente occupati dai barbari, fra entrambe le parti si crearono dei grandissimi dissidi tanto da combattere tra di loro arrecandosi reciprocamente pene e devastazioni.

 

Le fonti successive, le cronache come quella di Martin da Canal, presenteranno Venezia come la città della pace e dell'ordine: invece Giovanni Diacono non può nascondere lla realtà delle lotte per il potere politico, che portavano all'uccisione dei dogi o, secondo un antico rituale bizantino, al loro accecamento.

2.
Ai tempi dell'imperatore Anastasio e del re dei Longobardi Liutprando, tutti i Venetici, riunitisi insieme al patriarca ed i vescovi, stabilirono per unanime decisione che da quel momento in poi sarebbe stato più onorevole essere sottoposti ai duci che ai tribuni. Dopo avere discusso a lungo a proposito di chi tra loro avrebbe potuto essere innalzato a questa carica, trovarono un uomo espertissimo e illustre di nome Paulicio, al quale promisero fedeltà e lo fecero duca presso la città di Eracliana. Fu di così grande temperanza che giudicò con equità i suoi.

11.
Morto in quel medesimo tempo anche il suddetto duca Marcello, che aveva governato il ducato presso Cittanova per diciotto anni e venti giorni, gli succedette il duca Orso, il quale resse il suddetto ducato nella medesima città per 11 anni e 5 mesi, dopodiché i Venetici lo uccisero con acre livore e, per un periodo di cinque anni, vollero restare soggetti solamente ai magistri militum.
Il primo di loro si chiamava Leone e la sua potestà su di loro fu di un anno. Il secondo di loro si chiamava Felice, di cognome Cornicóla, che ugualmente li governò per un anno.
Il terzo magister militum si chiamava Deusdedit, figlio del già citato Orso, il duca ucciso, e anche la sua potestà fu per un periodo di un anno. Dopodiché il quarto di loro fu l'ipato di nome Iubiano; similmente possedette quella stessa carica per un anno.

14.
Accadute queste cose, dopo i quattro predetti magistri militum, un quinto, che si chiamava Giovanni Fabriaco, fu ordinato alla stessa prefettura; allo stesso modo degli altri, il suo governo fu per il periodo di un anno e pure i suoi occhi furono strappati dai Venetici.

19.
[…] i Venetici, riunitisi tutti nell'isola di Metamauco, innalzarono alla carica ducale un cittadino della città di Eracliana di nome Maurizio, assai esperto nell'arte di governo. Egli usò il potere giudiziario sapientemente e onorevolmente nei confronti di tutti i Venetici e nell'undicesimo anno
del suo ducato decretò per autorità apostolica che fosse creato nell'isola di Olivolo un nuovo episcopato, dove fece ordinare vescovo un chierico di nome Obeliebato.

Diventato quindi ormai vecchio, poiché aveva governato la carica ducale per trentun anni, volle, col consenso del popolo, avere come coreggente della sua carica suo figlio Giovanni; governò per due anni con suo figlio e così finì in pace l'ultimo giorno.
In seguito, ottocentoventitre anni dall'incarnazione del Sígnore, Giovanni, figlio del suddetto Maurizio, ottenne nella stessa isola l'onore di governare. Non abbiamo trovato né nelle fonti scritte, né nella tradizione orale che egli abbia agito per il benessere della patria. Ebbe un figlio, di nome Maurizio, al quale, nel diciottesimo anno del suo ducato, concesse la coreggenza della carica ducale.
In quei tempi nella Venezia il mare crebbe a tal punto che coprì oltre misura tutte le isole.

Libro III

I due prossimi brani, relativi a episodi svoltisi intorno all'875, presentano un ingrediente peculiare di queste narrazione: i mirabilia, quei segni naturali che vengono interpretati come messaggi significativi. Nella Cronaca gradense ad esempio si racconta che il prete Mauro, che aveva avuto la visione di San Pietro che gli ordinava di edificare il laguna una chiesa, giunto al lido di un'isola “vide che era pieno di vigne che avevano dell'uva matura ed ecco che una nuvola bianchissima gli apparve”. All'interno della nuvola igli appariva l volto della vergine Giustina che lo pregava di edificare proprio in quel sito, le Vignole, una chiesa in onore di Dio e del suo nome.

24.
Pressappoco in questi tempi, nel ventiduesimo giorno del mese di maggio, piovve sangue dalle nubi. Allora morì Giovanni, presule della Chiesa di Olivolo, che aveva governato la suddetta Chiesa per anni 10. Il presbitero Lorenzo gli succedette a reggere questa sede.

29.
Circa in questi tempi, nel mese di luglio, fu vista una stella attraversare il cielo da oriente come una fiaccola, la quale illuminò quasi tiutto il mondo. Dopo il suo passaggio, agli uomini sembrò di udire in cielo come il rumore di porte che si aprivano e si chiudevano. E perciò affermarono che il cielo si era aperto e chiuso. Allora migró da questa luce il patriarca Vittore, il quale aveva governato la Chiesa di Grado per diciotto anni;`fu sepolto nell'atrio di S. Eufemia. Gli succedette suo fratello Giorgio, che non visse più di un anno, sei mesi e ventun giorni.
A questi succedette nel governo della Chiesa Vitale il giovane.

 

Sotto il doge Pietro Tribuno, intorno all'anno 899, si verificava una terribile scorreria degli Ungari che tentarono di approdare attraverso il Lido.

37.
Nel frattempo, il pagano e crudelissimo popolo degli Ungari venne in Italia, devastò ogni cosa con incendi e rapine, uccise una moltitudine di uomini e fece anche numerosi prigionieri. Re Berengario mandò contro di loro un esercito di quindicimila uomini, ma pochi di loro tornarono.

Gli Ungari, dopo avere attraversato Treviso, Padova, Brescia e, altri territori, giunsero a Pavia e Milano e fino al monte di Giove, devastando ogni cosa. Poi entrarono nelle Venezie con cavalli e imbarcazioni ricoperte di pelli; dapprima, mentre la popolazione fuggiva, bruciarono Cittanova, quindi incendiarono Equilo, Fine, Chioggia, Cavarzere e devastarono i litorali. In verità tentarono anche di entrare a Rivoalto e a Metamauco, attraverso il luogo chiamato Albiola, nel giorno della passione dei santi apostoli Pietro e Paolo, ma sua signoria il duca Pietro, protetto dall'aiuto di Dio, mise in fuga con una flotta i predetti Ungari.
Questa persecuzione in Italia e nella Venezia durò un anno. Quindi re Berengario, dando ostaggi e doni, fece allontanare gli Ungari dall'Italia con tutto il bottino che avevano preso.

 

L'acqua è sempre stata considerata la migliore difesa dei veneziani migliore di una cinta muraria ma dopo le minacce subite dagli Ungari il doge Pietro Tribuno escogitò una nuova difesa.

39.
Pressappoco in questi tempi, sua signoria il duca Pietro, nel nono anno del suo ducato, cominciò ad edificare con i suoi sudditi una città presso Rivoalto e, in seguito a ciò, l'imperatore Leone gli conferì la carica di protospatario. La cinta muraria della predetta città si estendeva dall'imboccatura del canale presso Castello fino alla chiesa di s. Maria, che è detta di Zobenigo.
Lì era stata posta attraverso il canale una grandissima catena di ferro, la quale era legata da una parte all'estremità delle suddette mura, dall'altra alla sponda della chiesa di san Gregorio, evidentemente perché nessuna nave potesse entrare senza aver prima rotto la catena.
Il suddetto duca Pietro visse governando il ducato per ventitré anni, morì e fu sepolto nel monastero di san Zaccaria. I Venetici si dolsero molto per la sua morte, poiché era colmo di ogni bontà e aveva onorevolmente retto il ducato.

Libro IV

L'ultimo brano tratte dalle vicende di Pietro Candiano III, eletto nel 942, sotto il cui dogado avvenne la liberazione delle fanciulle rapite dai pirati narentani durante la "processio scholarum" ,ovvero la festa dei matrimoni che si teneva il 2 di febbraio nel giorno della "Purificazione"). Egli scelse come correggente suo figlio Pietro IV che però congiurò contro di lui. “Questi tentò di insorgere contro di lui, tanto che un giorno i soldati di entrambe le parti si recarono nella piazza di Rivoalto per combattere […] mentre la maggior parte del popolo voleva uccidere il figlio, il padre misericordioso ordinò che uscisse fuori dalla patria”. A quel punto “sia tutti i vescovi, sia l'intero clero con tutto il popolo giurarono che non lo avrebbero mai avuto come duca né prima né dopo la morte del padre”. Tuttavia morto Pietro Candiano III, il figlio venne richiamato in citt, con le funeste conseguenze che vengono narrate nel testo.

 10.
Frattanto era morto suo padre il duca Pietro, che aveva retto il ducato per diciassette anni; si dice che, dopo la cacciata del figlio, non avesse vissuto più di due mesi e quattordici giorni. Allora nel novecentocinquantanovesimo anno dall'incarnazione del nostro signore Gesù Cristo, una moltitudine di Venetici, insieme ai vescovi e agli abati, si riunì e dimenticando il giuramento, allestì circa trecento navi e si recò velocemente a Ravenna per restituire la carica ducale al suddetto Pietro. Lo accolsero e lo portarono con questo corteo a palazzo e con il giuramento di fedeltà lo crearono nuovamente principe.

11.
Questi, non molto tempo dopo, trovato un pretesto, proibì a sua moglie Giovanna íl letto coniugale e la obbligò con la forza a prendere l'abito monacale nel cenobio di s. Zaccaria. Fece consacrare chierico il figlio, di nome Vitale, che aveva avuto da lei e in seguito fece in modo che fosse fatto patriarca di Grado. Prese quindi in moglie la sorella del marchese Ugo, di nome Waldrada, dalla quale ricevette in dote un gran numero di serve e di servi e delle grandissime proprietà e cominciò ad assoldare sodati stranieri dal regno italico con cui poteva difendere e mantenere i predetti possedimenti.

Si dice che fu di così grande audacia che oppresse più del dovuto i suoi sudditi con il rigore della sua autorità e sottomise, punendoli duramente, gli stranieri, che gli si erano opposti. Infatti debellò completamente la popolazione del castello di Ferrara, ordinò di incendiare e devastare il centro fortificato di Oderzo e arrecò molto dolore a molti altri che gli avevano resistito. Ma, poiché non posso assolutamente descrivere tutte le azioni da lui compiute, cercheremo di fare conoscere, narrando, la sua fine.

12.
Nel diciottesimo anno della sua carica, fu ucciso in questo modo insieme al figlioletto, che aveva avuto dalla suddetta Waldrada. Da lungo tempo i Venetici lo odiavano per la sua severità e complottavano con cura per avere l'occasione di eliminarlo.
Un giorno, ordita una cospirazione, decisero di insorgere contro di lui; non osarono tuttavia entrare in alcun modo nel palazzo, poiché sapevano che era protetto da alcuni soldati, i quali, seppur pochi di numero, erano bellicosi.

Escogitarono infine un piano malvagio: decisero di dare fuoco con materiale combustibile misto a pece alle case vicine, che stavano di fronte al palazzo, al di là del canale, affinché la parte più alta delle fiamme, ondeggiando, potesse raggiungere il vicino palazzo e incendiarlo. Avvenne così che non solo il palazzo, ma anche le chiese di S. Marco, di S. Teodoro, e di S. Maria Zobenigo e più di trecento abitazioni bruciarono in quel giorno.

 

 

Il racconto di Giovanni Diacono ci ha dato molti elementi per ipotizzare che le cattive azioni di questo doge, eletto nel 959, non sarebbero rimaste impunite

13.
Il duca, non potendo a lungo sopportare all'interno del palazzo il calore del fuoco e íl soffocamento del fumo, cercò di fuggire con pochi uomini attraverso le porte dell'atrio di San Marco, dove trovò numerosi maggiorenti Venetici insieme a suoi parenti, i quali aspettavano per ucciderlo. Come li vide, così parlò: «Anche voi, fratelli, avete voluto venire ad aumentare la mia rovina? Se ho sbagliato in qualche cosa con le parole o con atti pubblici, vi prego di lasciarmi vivere e prometto di soddisfare ogni vostro desiderio» . Allora quelli, affermando che egli era scelleratissimo e degno di morte, urlarono con grida feroci che non c'era per lui alcuna possibilità di fuggire e subito lo colpirono crudelmente in ogni parte con colpi di spada. L'anima divina, lasciato il carcere corporeo, si diresse verso le sedi celesti. Anche il figlio, che la nutrice aveva sottratto al pericolo dell'incendio, fu trafitto da un'iniquissima lancia e pure i soldati, i quali avevano cercato di portargli aiuto, furono uccisi. I loro gelidi corpi, cioè quello del padre e quello del figlio, furono dapprima portati per infamia con una piccola barca alla piazza del macello, quindi, su richiesta di un santissimo uomo, di nome Giovanni Gradenigo, nel monastero di S. Ilario.

 

Waldrada sopravvisse e il doge successivo, Pietro I Orseolo, le avrebbe lasciato il possesso integrale dell'eredità del marito per non inimicarsi Adelaide, ex imperatrice e vedova di Ottone I, che aveva preso sotto protezione Waldrada.

 14. Perpetuato questo orribilissimo crimine, i Venetici si riunirono nella chiesa di s. Pietro dove decretarono con voto unanime di elevare alla carica di duca Pietro, di cognome Orseolo, famoso per la sua generosità e per i suoi costumi.
Questi desiderando fin dalla fanciullezza nient'altro che piacere a Dio, esitò nell'assumere una così alta carica, temendo di perdere, per ambizione di onore secolare, il proposito di santità. Infine, in seguito alle pressanti sollecitazioni del popolo, non rifiutò di ricevere la suprema carica del principato, non per umano profitto, ma per il benessere di tutto lo stato. Ricevuto quindi da tutti il giuramento, volle risiedere a casa sua fino alla ricostruzione della chiesa di s. Marco e del palazzo.

Sua moglie era Felicia, la quale lo era per nome e per meriti, madre di un solo figlio, il quale, omonimo dei padre, non gli fu dissimile nell'operato. Dopo il suo concepimento, che si dice la santa madre abbia appreso da una rivelazione angelica, essa, obbedendo a suo marito, fece a sua volta voto a Dio di mantenere inviolato, da quel momento in poi, il letto coniugale.
Lo stesso duca cominciò ad occuparsi bene ed utilmente dei problemi dei Venetici, ad applicare con grande attenzione la legge nei confronti di tutti e ad eccellere in tutte le virtù. Si preoccupò di restaurare onorevolmente a proprie spese il palazzo bruciato e la chiesa di s. Marco.

 

Nota:

Per le esigenze della lettura teatrale i testi sono stati elaborati con una certa libertà: i brani sono stati abbreviati e la lingua è stata normalizzata all'uso odierno.