La biblioteca di Francesco Petrarca

Un dono mai effettuato, ma leggendario

Note biografiche

Uomo di lettere, preumanista, il toscano Francesco Petrarca (Arezzo 1304 – Arquà 1374) studiò ad Avignone, Montpellier e Bologna.
Gli ordini minori gli diedero la possibilità di dedicare la vita allo studio dei classici e alla composizione letteraria e poetica.

I suoi rapporti internazionali al tempo del soggiorno avignonese dei papi, i frequenti viaggi e dimore diverse, la frequentazione con i letterati e l'intensa passione per le lettere latine ne fecero la figura centrale tra i precursori dell'Umanesimo.

Il lascito

Durante il soggiorno a Venezia del 1362, Petrarca maturò l'idea che proprio la città lagunare avrebbe potuto accogliere degnamente la sua biblioteca.
In accordo con il cancelliere della Repubblica Benintendi de' Ravagnani, fu fatta la proposta allo Stato veneziano: l'insigne poeta avrebbe lasciato i propri libri all'Evangelista Marco “purché non si possano né vendere né separare”,tenuti “in un luogo sicuro... lontano dal fuoco e dalla pioggia”, affinché si conservino “perpetuamente per sua gloria, e utilità e piacere dei nobili e letterati cittadini”.

Tale biblioteca avrebbe dovuto costituire il nucleo aggregante affinché altri manoscritti fossero acquistati, affinché altri cittadini, i patrizi, ma anche gli stranieri fossero indotti a lasciare in morte i propri libri. “In tal modo si formerà un giorno una ricca biblioteca da pareggiarsi a quelle degli antichi”.

In cambio, chiese una casa dove poter vivere sino alla morte e dove riunire i propri libri.

Il 4 settembre il Maggior Consiglio accettò la donazione “considerando quanto possa tornar a lode di Dio e del beato Marco Evangelista e ad onore e fama della città nostra” e dispose per la concessione al poeta della casa delle due torri sulla riva degli Schiavoni.
Sarebbe stato affidato ai Procuratori della chiesa di San Marco di provvedere al luogo dove i suoi libri avrebbero dovuto essere riposti e conservati dopo la sua morte.

Già il Petrarca vedeva la futura Biblioteca veneziana che sarebbe sorta in luogo pubblico, vicino alla sede della Signoria, nella “piazza maggiore della città, con cui non altra a mio credere può venir in paragone di bellezza, e in prospetto del tempio che tutto risplende di marmi e d'oro”.
Era il lungimirante disegno dell'istituzione di una pubblica biblioteca.
Non ebbe attuazione, ma su quel l'idea si fondò la futura biblioteca di San Marco.

All'inizio dell'estate del 1367 Petrarca partì da Venezia, verso Pavia, per via di fiume.

Fosse stata l'accoglienza poco calda da parte degli intellettuali veneziani (la cosiddetta ingiuria degli aristotelici), fosse l'ambiente politico mutato e la morte del Benintendi, o semplicemente mutevole il suo intento, l'allontanamento da Venezia divenne definitivo e i codici ebbero nuova destinazione.
Entro il 1368 i libri giunsero a Padova, sede del suo canonicato, e ad Arquà, sua ultima dimora concessagli da Francesco Novello. I Carraresi poterono avere il meglio della biblioteca, alla morte del poeta occorsa nel 1374.

I volumi del Petrarca furono in parte dispersi, ma un buon nucleo trovò luogo nella biblioteca di Francesco da Carrara, signore di Padova.
Quest'ultima confluì nel 1388 in quella di Pavia, dei Visconti e poi degli Sforza, a propria volta migrata poi a Parigi, presso Luigi XII, ora alla Bibliothèque Nationale de France.

La leggenda dei libri petrarcheschi a Venezia

Una leggenda suggestiva, che ha ammaliato molte generazioni di studiosi a partire dal Seicento, volle che si riconoscesse come presente, tra il Palazzo Ducale e la nuova Biblioteca di san Marco sorta nel frattempo, il residuo della cospicua e misteriosa biblioteca che il Petrarca aveva destinata a Venezia nel testo della donazione del 1362.

L’insieme dei codici, cosiddetti petrarcheschi al momento del ritrovamento, non era tuttavia che un ‘tesoretto’ di trasandatezze e incurie ma anche di scarti operati intenzionalmente.

Tra i codici marciani

Presso questa Biblioteca è conservato un codice delle Epistolae familiares copiato per Petrarca nel 1363-64, il Lat. XIII, 70 (=4309). Nelle postille apposte nell' Odissea, scritta e tradotta in interlinea da Leonzio Pilato, esemplare Gr. IX, 29 (=1007), si è riconosciuta la mano del Petrarca.

Nel codice Lat. VI, 86 (=2593) dell'ultimo Trecento, contenente De remediis utriusque fortunae (opera ultimata dal Petrarca nel 1366), già posseduto dai Domenicani ai Santi Giovanni e Paolo, vi è esplicita menzione (f. 224v) della polemica suscitata durante il soggiorno veneziano del Petrarca da quattro personaggi che lo definirono "sine litteris virum bonum": i veneziani Leonardo Dandolo, Tommaso Talenti, Zaccaria Contarini e il reggiano Guido di Bagnolo avevano inteso riaffermare la cultura averroistica, radicata a Venezia, di contro al preumanesimo platonista del Petrarca. 

Il capolettera in apertura (f. 1r) contiene un raffinato ritratto del poeta.

 

Per saperne di più

  • Albinia C. de la Mare, The handwriting of italian humanists, I/1, Oxford, University Press, 1973.
  • Nereo Vianello, I libri del Petrarca e la prima idea di una pubblica biblioteca a Venezia,in Miscellanea marciana di studi bessarionei (a coronamento del V Centenario della donazione nicena), Padova, Antenore, 1976, pp. 435-451.
  • Susy Marcon, Osservazioni sugli aspetti materiali del ‘codice Cumanico’ (Marciano Lat. Z. 549 =1597), in Il codice Cumanico e il suo mondo, a cura di Felicitas Schmieder e Peter Schreiner, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005, pp. 73-102;
  • Filippo Maria Pontani, L’Odissea di Petrarca e gli scoli di Leonzio,in Francesco Petrarca e il mondo greco, in “Quaderni petrarcheschi”, 12-13, 2002-2003 [ma 2007], pp. 295-328.