Venezia nelle fotografie di Carlo Naya della Biblioteca Vallicelliana
Testo del documento:
“IN PRESSOCCHÈ TUTTI I PAESI DEL VENETO SI TROVANO FOTOGRAFI – annotava Antonio Errea in un suo compendio del 1870 – MOLTO GUADAGNO NE RICAVANO, ED È GRANDE LO SMERCIO ANCHE ALL’ESTERO[…]SONO PURE DEGNI DI PARTICOLARE MENZIONE I LAVORI OTOGRAFICI DEL NAYA, E SI MERITANO LODI DA GIORNALI DI ARTE E DI INDUSTRIA, PER ESECUZIONE E PELLA SCELTA DELLE COSE FOTOGRAFATE[…]” ( 2 )
Le cose fotografate erano i palazzi, le opere d’arte, le vedute veneziane, e le scene di genere folkloristiche, ovvero i soggetti generalmente preferiti ovunque dai fotografi, e destinati al grande mercato che la fotografia aveva ormai conquistato, ma Naya sapeva scegliere con particolare cura e descriverli con singolare accuratezza tecnica.
Carlo Naya, però, non si era limitato a svolgere un lavoro artigianale da piccola bottega d’arte ma, come gli Alinari, aveva rapidamente ampliato l’atelier assumendo parecchi aiutanti sia per i lavori esterni che per quelli di laboratorio ed editoriali, al punto che l’Errea non poté esimersi dal dire che “una lode deve essere fatta a chi (Naya) trasformò questa arte in una industria importante pur conservandole carattere estetico” ( 3 )
Carlo Naya (o più esattamente, NAJA, come risulta nell’atto di battesimo) non era però veneziano
essendo nato a Tronzano Vercellese il 2 agosto del 1816. La sua famiglia era benestante e fu quindi avviato agli studi universitari, insieme al fratello, nella facoltà di Giurisprudenza di Pisa tra il 1837 e il 1840, sostenendo l’ultimo esame per il Dottorato in Sapienza ( 4 )
Alla morte del padre, avvenuta nel 1840, Carlo Naya rientrava a Tronzano e con i soldi dell’eredità, che dovette essere cospicua, partì insieme al fratello per un lungo viaggio dapprima in Italia, studiando nei musei, nelle gallerie e nelle pinacoteche i capolavori dell’arte, successivamente visitando le principali città in Europa, recandosi poi in alcuni paesi del bacino mediterraneo, attratto anche dall’archeologia e dall’arte islamica.
Carlo Naya insieme al fratello si insedia così a Pera, un quartiere centrale e vivacissimo di Costantinopoli (odierna Istanbul), dirimpetto all’ambasciata di Russia, sulla Grande rue de Pera. ( 5 )
L’interesse dell’Occidente per il Medio Oriente era infatti sempre più stimolato da una diffusa
conoscenza della Bibbia e dalla letteratura di viaggio.
Verso la fine del XIX secolo, i borghesi europei cominciarono a viaggiare in così gran numero da suscitare reazioni allarmate come quella pubblicata sul Times che diceva “…i turisti affollano i luoghi che dovrebbero essere visitati in reverente silenzio…” ( 6 ). Come i loro equivalenti di oggi, questi viaggiatori ricercavano souvenir possibilmente autentici e pensavano che fosse un loro diritto portarseli a casa; come disse qualcuno, non si poteva tornare dall’Egitto senza “una mummia in una mano e un coccodrillo nell’altra….” ( 7 ).
Tutte le civiltà nate e scomparse in Medio Oriente hanno lasciato una sconfinata varietà di rovine e la fotografia dei precursori diviene così il principale strumento documentario di questi siti. Dopo la morte del fratello avvenuta a Costantinopoli nel 1856 Carlo Naya rientrò in Piemonte ( 8 ) ma subito dopo (pare nel 1857), partì per Venezia dove decise di stabilirsi e mettere a profitto il residuo capitale rimastogli utilizzando l’esperienza fotografica amatoriale che doveva essere notevole visto che gli consentì di affrontare professionalmente questo mestiere in una città dove già esistevano importanti studi fotografici.
A Venezia infatti questa attività sembrava aver trovato un suo spazio ideale, un topos dove ogni cosa si trasformava in immagine fiabesca, esotica senza grande fatica. Luoghi che venivano proposti poi negli allettanti cataloghi dei fotografi che offrivano per pochi franchi una interminabile sequenza di “riproduzioni” d’ogni specie e misura, concedendo a chi l’avesse voluto (ed erano già in molti) di mettere in tasca un intero museo, e volendo anche tutta la città. Iniziavano a nascere, negli
anni in cui lo stesso Naya si era trasferito nella città lagunare, importanti studi fotografici, come
quello di Carlo Ponti (1821-1893) ( 9 ), che era giunto anni prima dalla Francia (nato però nel Canton
Ticino), dove aveva studiato ottica e praticato la fotografia.
Ponti fu infatti uno dei primi a impegnarsi a Venezia nella diffusione di immagini fotografiche, producendo gli album “Ricordo di Venezia” nei vari formati e prezzi, contenenti anche riproduzioni di sculture e dipinti, sebbene in una iconografia più popolare. Carlo Naya (che in seguito si firmò a volte Naja e anche Naija) era giunto a Venezia portando con sé, anche una serie di lastre al collodio di cm 19,5x26, oggi famose, di soggetti folkloristici del Meridione d’Italia, che dovettero costituire allora una specie di credenziale sulla sua abilità di fotografo e anche il nucleo di partenza del suo catalogo che divenne ben presto tra i più ricchi del settore ( 10 ).
A Venezia dunque il dottor Carlo Naya escluse l’ipotesi di esercitare la professione di avvocato, e decise di fare il fotografo, seguendo questa sua passione fino in fondo, ma utilizzando comunque la sua cultura, specie nella scelta dei soggetti e nella organizzazione dell’atelier, che si distinse in breve tempo nonostante all’inizio si appoggiasse allo stabilimento dello stesso Ponti, in Riva degli Schiavoni, il quale provvedeva a vendere le sue opere.
Naya aprì un laboratorio in Campo San Maurizio 2758 e una vetrina d’esposizione e vendita in
Piazza San Marco, che ingrandì mano a mano, impegnando, nel 1868, ben quattro numeri civici,
dal 75 al 79 (ma al 76 aveva lo studio un altro fotografo di fama, Giovanni Jankovich, autore, inoltre,
di un importante manuale edito nel 1880) ( 11 ).
Il negozio di Naya, scrisse un cronista della “Gazzetta privilegiata di Venezia” era “un gioiello degno
della piazza San Marco” dove erano i fotografi, allora a vendere i souvenirs della città, ossia le loro
fotografie ( 12 ). Nel 1864 su lastre al collodio 20x27 cm “realizzate dagli originali e senza alcun ritocco” ( 13 ), come lo stesso Naya precisa nel catalogo della ditta, riprodusse gli affreschi di Giotto, appena restaurati e anche dopo altri restauri, nella Cappella degli Scrovegni a Padova, per conto di Pietro Selvatico Estense, il quale fu sindaco di Venezia, architetto e già direttore dell’Accademia di Belle Arti di Venezia.
Lo stesso Naya nel 1867 riprodusse inoltre i bassorilievi della Chiesa dei Santi Giovanni e Paolo,
in immagini che oggi sono l’unica testimonianza, essendo andati distrutti durante un incendio avvenuto nello stesso anno. Nelle vedute di architettura Carlo Naya non si discosta dagli schemi della prospettiva cari ai disegnatori, ma lo strumento fotografico, nonostante ogni desiderio di imitazione, obbliga a vedere in modo nuovo, enfatizzando semmai questa prospettiva, che in fotografia trova la sua origine sulla linea dell’orizzonte.
Naya utilizza punti di vista alti (i campanili), alla ricerca del “panorama” e si scopre così una città diversa, nella cui scenografia compare ancora poca gente in sosta quasi per caso nel cono ottico dell’obiettivo se si escludono le regate o le manifestazioni pubbliche, dove Naya è sempre presente, con i suoi assistenti come in occasione del viaggio a Venezia dell’Imperatore Austro-Ungarico il 5 aprile del 1875 quando esegue il reportage insieme a Schoefft, fotografo che con molta probabilità era a seguito dell’imperatore e con il quale Naya ha condiviso l’esclusiva ( 14 ).
Sempre nel 1867 partecipò all’Esposizione Universale di Parigi con una serie di vedute di Venezia e di riproduzione di affreschi che arricchiscono alcune chiese di Padova, di Giotto e del Mantegna, che gli fecero ottenere una medaglia d’argento ( 15 ). Scriveva infatti Borlinetto ( 16 ) nel resoconto sulla partecipazione italiana di come “Il signor Naya” sia riuscito ad ottenere delle fotografie, di ottima qualità, degli affreschi di grandi maestri che si trovavano, spesso, in luoghi pochissimo o male illuminati.
Queste fotografie, di cui i negativi furono eseguiti con processo a secco, presentavano una perfezione ed una uniformità come se fossero state fatte in luogo aperto: Il “signor Naya”, scriveva sempre Borlinetto, oltre a questi lavori, esponeva molte altre belle fotografie d’interni e di vedute di Venezia ( 17 ). Ciò gli procurò notorietà non solo in Italia ma anche a Parigi ed a Londra.“ Le sue stereoscopiche godono di singolare reputazione; le ricompense avute in altre epoche, quella della medaglia d’argento accordatagli in quest’anno all’Esposizione Universale comprovano l’incontrastabile merito delle di lui opere.” ( 18 )
Un anno prima nel 1866, il Veneto e Venezia erano stati finalmente annessi al Regno d’Italia e ciò aveva incrementato ulteriormente il turismo e il commercio delle immagini della città lagunare; tra i fotografi primeggiò Naya, che da allora organizzò anche un’estesa rete di distribuzione nelle maggiori città europee, con i suoi rappresentanti. Il laboratorio Naya impegnò quindi il lavoro di molte persone che parteciparono direttamente allo sviluppo dell’atelier anche con la ripresa diretta di molte fotografie che sono invece state erroneamente attribuite al Naya.
Nel 1868 Naya aveva iniziato in Tribunale una interessante e precoce questione relativa al diritto
d’autore, chiamando in causa fotografi veneziani famosi come Carlo Ponti e coinvolgendo anche un
grande editore come Ferdinando Ongania. Naya infatti, per cautelarsi da eventuali furti, predisponendosi così a ottenere una prova certa e indiscutibile dalla contraffazione, con un ingegnoso sistema introduceva sui negativi delle fotografie qualche segno convenzionale; per esempio veniva cancellata una foglia dalla punta di un ramo, una piccola palla dalla cima di un obelisco.
Dimostrava in questo modo come le altre foto fossero copie perché se riprese dal vero non potevano mostrare le stesse caratteristiche che invece, erano state modificate sui negativi nel laboratorio Naya. Il tribunale quindi condannò con sentenza dell’11 febbraio 1882 “in solidum gli imputati al risarcimento dei danni ed interessi, e inoltre alla “distruzione di tutti gli esemplari delle fotografie contraffate e a rifondere al cav. Naya le spese di costituzione e rappresentanza di parte civile” ( 19 ). La causa fu vinta dopo quattordici anni, nel 1882, anno della sua morte.
Alla fine del processo il suo avvocato Leopoldo Bizio, pubblicò anche un singolare libretto, riportandovi tutta la vicenda processuale che apriva nuovi spiragli in questo settore della giurisprudenza.
L’ultimo grande album importante di fotografie concepito dalla Ditta Naya furono i “RICORDI”, che si continuerà a produrre in ogni formato fino ai primi anni del secolo, tra i quali vi fu quello dedicato nel 1887 alle Isole della laguna di Venezia. Naya partecipa, insieme ad altri professionisti ai diversi Salon aumentando, con le medaglie ricevute, il prestigio dell’atelier. Partecipa a Vienna nel 1873 con molte fotografie di opere d’arte e monumenti, tra le quali quelle che riproducono il mappamondo di Fra Mauro, meritando una medaglia di “Progresso” ( 20 ).
Tra i riconoscimenti dell’attività di Carlo Naya sono da ricordare: grande medaglia dell’Esposizione di Londra nel 1862; medaglia d’oro all’Esposizione di Groninga nel 1869, di Trieste e Dublino del 1872, di Torino del 1884 e di Anversa del 1885 ( 21 ).
Carlo Naya muore nella sua abitazione di Campo S. Maurizio 2758, il 30 maggio 1882, come testimoniato dall’amico Bizio che in una nota nella Gazzetta di Venezia del 30 maggio 1882: “Dopo una vita laboriosa, intelligente e onesta, questa notte alle due e mezzo in braccio alla sua affettuosa consorte, chiuse per sempre gli occhi il Cav. Carlo Naya. Da più giorni egli sentiva l’avvicinarsi della sua ultima ora, e la aspettò con animo tranquillo e con mente chiara e serena sino all’ultimo istante, come chi ha conoscenza di aver scrupolosamente adempiuto i propri doveri.” ( 22 )
Nelle pagine dell’Osservatore Veneto del 1 giugno si legge: “Sfarzosi i funerali (nella cappella ardente che la vedova fece apparecchiare in una sala del palazzo con una ricchezza veramente principesca ardevano oltre sessanta ceri…”) vi fu una grande partecipazione da parte dei veneziani nelle Chiesa di S. Stefano, dove accanto al feretro sfilano in prima fila “cinque degli agenti, che portavano cinque bellissime corone” ( 23 ).
Dopo la morte di Carlo Naya la ditta ebbe ancora successo, fino alla morte della vedova Ida Lessiak (di origine ungherese), quando l’atelier era passato al suo secondo marito, lo scultore Antonio Dal Zotto (1852- 1918), erede di tutto e continuatore dell’attività fino al 1918. L’archivio venne allora in parte rilevato dall’editore Ongania, che lo cedette poi a Osvaldo Böhm e va considerato uno dei più ricchi e integrali archivi fotografici dell’Ottocento.
Teresa Devito